"Perché la prima schiava d'amore non si scorda mai"
"Anche quando capisci solo cinquanta anni dopo che era stata proprio lei"
Verso da bere, ancora. E attendo che la storia sua diventi, nel
racconto sotto il sole, mia.
L'uomo dal volto gentile viveva a Genova, nell’ex paese così vicino alla città fino a farsene
nel tempo un quartiere. Dove nacque, un 18 di febbraio di solo qualche anno prima che
nascessi lui, Fabrizio.
De Andrè, Fabrizio. Poeta.
I suoi genitori, mi narra l'uomo. E quelli di lei.
Amici, molto, al punto di frequentarsi
assiduamente durante l’intera settimana. E di conseguenza dell’età e
della sudditanza infantile verso le abitudini dei genitori, loro.
Il primo ricordo visivo che lui ha di lei, oltre all’accento toscano, è un
cappotto grigio, oggi lo si definirebbe grigio topo (gli anni ’50 avevano
pochi colori e non bellissimi per i bambini, i colori sono venuti solo
molti anni dopo) un tweed grigino, lui se lo ricorda bene. Un berretto di lana
rosso, fatto da qualche nonna di sicuro.
La calzamaglia rossa e le scarpe, sandali con gli occhi, solo in inverno
con la suola non di cuoio ma di para.
Era bellissima.
La frequentò, pressoché coetanea, da quando nacque fino ai sei anni
suoi, se lo ricorda bene.
Bevendo ancora, solo una pausa per ritrovare voce e parole, mi guarda e
sorride.
E poi riprende le sue parole.
Ricorda, che a casa, la sua, era a picco sul mare, antica e si sentivano
le onde sbattere al muraglione nei giorni di bufera, in cucina c’era un
tavolo di marmo vecchio già allora. La donna che li aveva in cura nelle
uscite serali era malata di Gilberto Govi, che all’epoca imperversava,
ligure più della Liguria stessa, in televisione. Ricorda quel tavolo e
quella televisione in bianco e nero, enorme, e me sembra di vederli
nelle sue parole.
E quando parla della televisione ralenta le parole, come se stesse per
svelare qualcosa di sconosciuto e misterioso quasi.
Sì, l'uomo era nato quando
nacque, in Italia almeno, la televisione.
L'anziana donna che li accudiva durante le assenze dei loro genitori guardava Govi e lui il dialetto però non lo capiva. Giocava con D. , con
lei.
Lei, davanti al televisore, la donna grossa e semplice che li curava,
regolarmente si addormentava. In pochissimi minuti.
Così loro stavano svegli. Finchè sentivano la chiave nella toppa.
Solo allora
correvano a fingersi da tempo addormentati, vicini, da ore, senza
ingannare però nessuno.
Un poco come i bambini che coprendosi gli occhi credono di aver
guadagnato l'invisibilità.
Ma allora sembrava loro così perfetto quel
simulato dormire che loro stessi ci credevano.
Racconta l'uomo tanti anni dopo, che lei era capricciosa, scostante quasi, la personificazione
per un bambino di quella cosa misteriosa che era una bambina allora.
Voleva imporre giochi. I suoi.
Ricorda una sera che il gioco lo scelse lui, perché secondo lui i suoi
erano più fantasiosi e quelli di lei noiosi. Marito e moglie, il te
pomeridiano, "facciamo i genitori e le mie bambole sono i nostri
bambini…"
No, non gli piacevano davvero.
Ma gli piaceva lei.
E così mise una tovaglia sul tavolo di marmo che li nascose, arrivando fino al
suolo.
E in quella grotta diventarono naufraghi, e lui credo fosse anche un pirata
quella sera.
Procurò da mangiare alla femmina sua prigioniera.
Fiori.
Li trovarono addormentati sotto il tavolo tardi, al rientro, loro sotto
il tavolo e la signora grassa abbandonata al suo sonno anche lei, sulla poltrona.
Gli dissero, anni dopo, che sotto il tavolo c’erano tante rose senza più
fiore e tanti garofani mangiati. Tanti da dover telefonare a un dottore
nel pieno della notte per sapere se i due bambini dovessero essere portati in ospedale
e essere oggetto di una lavanda gastrica provvidenziale.
L’altro ricordo dell'uomo, di quella bambina e di quegli anni loro, è un pezzo di visone.
Che lei teneva, contro di cui, femmina già a cinque anni si strusciava
voluttuosa. E misteriosa.
“Se fai quel che ti dico te la farò usare” gli diceva, agitando quella
piccola pezza rettangolare di pelo chiaroscuro.
Sfidandolo nei pomeriggi passati al parco, con gli affusti di cannone su
lui cui adorava giocare.
E lei agitava quel pezzetto rimasto dal taglio della pelliccia della madre,
come si agita una muleta al toro. Poi scappava. Solo per farsi
catturare.
Era morbidissimo ed era un vero piacere al tatto di mani e viso quel
pezzo di pelliccia irregolare. Era bellissimo per il bambino catturarla, portarglielo
via dopo aver lottato, dimenticandosi che lei fosse bambina e lui
bambino. Lei non fingeva di lottare, lottava davvero, ben sapendo
comunque che a vincere sarebbe stato sempre solo lui. Gli dava la
soddisfazione insomma, ma lui nemmeno lo capiva di dover lottare davvero.
Lottavano. E basta.
A volte facendosi anche male, cadendo sulla ghiaia in mezzo al parco,
dove lo tagliava simmetrico il viale.
Con quel tesoro in mano, poi finalmente comandava lui. E lei obbediva,
dopo una lotta che, l'uomo lo confessa sorridendo, solo ora lui ha
capito lei voleva perdere, più che per forza sua di maschio,
forse per voglia di femmina, di lei.
“Ora è mia, se la rivuoi, dovrai obbedire D.” le diceva, agitando
il suo trofeo rubato.
“A tutto” aggiungeva con tono misterioso, e lui nemmeno quel tutto che
diceva con la voce seria sapeva in realtà cosa volesse dire.
Lei da capricciosa, bizzosa, scostante diventava morbida e dolce come
quel visone allora. E si lasciava, con la scusa del suo dono da
recuperare, dirigere, guidare, piegare.
Ricorda, tanti anni dopo.
L'uomo incontrato per caso a una fermata della filovia, che mi racconta la sua vita, giorno dopo giorno, da settimane,
davanti a due bicchieri, riempiti e vuotati anche oggi ormai più e più
volte, giunti adesso al volgere del sole.
E sorride ora, anche se di lei non sa nemmeno più se esista ancora o dove
sia.
"A volte mi domando, sai, come sia stata la sua vita" dice
guardando il fondo del bicchiere vuoto e l'alone rosso depositato al
fondo "..e abbastanza spesso mi capita da piccole cose di tornare col
pensiero a lei e ai nostri giorni"
"Me la ricordo come fosse ieri, persino le sue risate quando si
arrendeva, che sapevano di vittoria sua e non mia."
"Perché credo sia vero che la prima schiava d'amore non si scorda mai"
Mi dice, con aria a metà, tra il sogno velato di nostalgia e di anni
troppo lontani, e l'ironia.
"Anche se solo dopo una vita la capisci tale"
Poi si alza, e salutando con un cenno gentile del capo, si volta a destra. E
scivola lungo la via.
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